C’è un bel libro dello scrittore napoletano Erri De Luca, "I pesci non chiudono gli occhi" (Feltrinelli, 2011) in cui Ischia, per altro mai nominata "apertis verbis", è lo spazio in cui si muove un ragazzino di dieci anni, in vacanza sull’isola alla fine degli anni ‘50, alla scoperta di se stesso, mosso dal desiderio di pareggiare la profondità delle inquietudini che lo agitano con l’aspetto fisico, che è ancora quello di un bambino.
Il racconto è fluido, con periodi brevi e concisi e la capacità, propria solo dei grandi scrittori, di ricreare continuamente quell’effetto di attesa che induce a continuare la lettura.
Quello che colpisce è l’evocazione dell’isola come uno "spazio aperto", l’opposto di una "città chiusa" come Napoli. Il capovolgimento di prospettiva rispetto all’immaginario turistico e alla contrapposizione abituale con ciò che sta in terraferma è evidente.
Scendevo alla spiaggia dei pescatori, stavo i pomeriggi a guardare le mosse delle barche. Con il permesso di mamma potevo andare su una di quelle, lunghe, coi remi grossi come alberi giovani. A bordo facevo quasi niente, il pescatore si faceva aiutare in qualche mossa e mi aveva insegnato a muovere i remi, grandi il doppio di me, stando in piedi e spingendo il mio peso su di loro a braccia tese e in croce. [...] Al pescatore serviva in qualche momento la mia piccola forza ai remi. Non mi faceva accostare agli ami, alle lunghe lenze col piombo di profondità. Erano attrezzi di lavoro e stavano male in mano ai bambini. In terraferma, a Napoli, invece stavano eccome i ferri e le ore di lavoro sui bambini.
Mi faceva gettare l’ancora. Avevo raggiunto i dieci anni. [...] L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato delle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori.
(tratto da "I pesci non chiudono gli occhi" di Erri De Luca, Feltrinelli editore, 2011)